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28/10/2005 Sèberos de Imprenta - “Il Sassarese”, 15 giugno 2005

Colonizatzione fiscale, ma Pantalone non gastat

de Fabritzu Dettori


Recentemente il presidente della Regione sarda Renato Soru e l’assessore alla programmazione Francesco Pigliaru hanno reso noto che lo Stato italiano è in debito con la Sardegna di oltre tre miliardi di euro, accumulati dal 1991 al 2003, relativi alla compartecipazione dei tributi incassati nell’Isola. La questione tributaria in Sardegna è aperta da sempre. Esiste un progetto di legge, risalente al 1989, il quale, se codificato, darebbe all’istituzione regionale la titolarità di tutte le imposte riscosse nel territorio sardo per la quota di 9/10, Iva inclusa. 

Nel 2000, l’ex assessore regionale alla programmazione, Pietro Pittalis, aprendo un negoziato con lo Stato, rivendicava tale «titolarità», e calcolava che l’assenza di una legge in merito determinasse una perdita alla Sardegna (i nazionalisti sardi lo dicono da una vita) più di 3000 miliardi ( di vecchie lire) permanenti per anno. A questa vertenza si aggiunge quella annosa della cosiddetta «sede legale». L'obbligo, quindi, per le imprese che operano e creano reddito nell'isola, (andrebbero, quindi, comprese anche quelle imposte prodotte da quegli imprenditori che in Sardegna operano col principio colonialista del «mordi e fuggi» dei mesi estivi per fare in modo che in Sardegna non rimangano soltanto gli stipendi), ma con sede legale fuori di questa, di versare le imposte nelle casse della Regione Sarda. Fu Efisio Corrias il 31 novembre 1950 a proporre, in merito, una proposta di legge al Consiglio regionale, il quale la approvò il 28 dicembre 1950. Ritenuto idoneo anche dal parlamento italiano, il progetto nel 1953 divenne legge, e fu incorporata all'art. 8 dello Statuto Sardo.

 Il testo de I comma era: «Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori del territorio della Regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell'accertamento dei redditi di ricchezza mobile debbono determinarsi le quote di reddito afferenti all'attività degli stabilimenti ed impianti medesimi. L'imposta relativa a detta quota spetta alla Regione limitatamente ai nove decimi ed è iscritta nei ruoli degli Uffici delle imposte dirette, nel cui distretto sono situati gli stabilimenti ed impianti». Ma, col d.p.r. del 26 gennaio 1972 lo Stato italiano annulla il testo originale, così come l'abbiamo visto, per restituircelo, dopo anni di traversie, mortificato dei valori autonomisti che l'avevano generato, solo nel 1983, quando la legge italiana n.122 del 13 aprile lo permise. 

Tra la vecchia e la nuova formulazione c'è un'importante differenza: la prima, come abbiamo visto, attinge l'imposta dai redditi delle imprese continentali, mentre la seconda, come tutti possono verificare, dagli «emolumenti» degli operai – sardi – che in tali imprese lavorano. Finora la mancanza di una normativa finanziaria realmente autonomista, ha fatto perdere alla Sardegna, oltre a quelli già visti, innumerevoli capitali, come quelli sottratti attraverso le imposte su quei redditi prodotti in Sardegna dalle amministrazioni dello Stato, quali per esempio: scuole, forze armate, pensioni Inps, ecc. 

Ad attribuirsi tale gettito fiscale, infatti, non è, come sarebbe logico, la Sardegna, ma il Lazio, giacché è a Latina il centro meccanografico che esegue i calcoli sui redditi nostrani! Questa politica ha solo un nome: colonizzazione! Supponiamo, che il gettito fiscale «rapinato» finisca nelle casse della Regione (qui abbiamo visto soltanto alcuni dei problemi tributari): il Popolo Sardo acquisirebbe non solo la proprietà di un'enormità di capitali, ma anche la coscienza che le «generose» sovvenzioni statali, elargite in pompa magna e talvolta con spirito elemosiniere, avvenivano con i suoi stessi soldi, sottratti nel tempo. Rigetterebbe, infine, la convinzione inculcatagli, la quale paralizza psicologicamente molti sardi, che la Sardegna essendo, «povera», non potrebbe vivere libera dall'Italia.
Fabritziu Dettori

A segus