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04/07/2008 
Su sardu, putzi putzi
[de Zuanne Frantziscu Pintore]
Faccio un corno alla mia lingua e, così come ha fatto Roberto Bolognesi un paio di articoli fa (a proposito: è perfetto), tento di farmi capire anche da chi “su sardu putzi putzi”. L’assessora Mongiu ha riunito giorni fa la conferenza dei promotori e patrons dei festival sardi per tentare – leggo sui giornali – di evitare l’ingorgo festivaliero. Iniziativa tecnica ineccepibile e utile, anche se avrà, forse, l’effetto collaterale di non risparmiare, così, alcuna settimana dell’anno.


Il dramma non sta, ovviamente, nella quantità dei festival, anzi, che sono luogo di spasso per la mente e di incontro di gente con gente e spesso di gente cun fava e lardu, cibo che apprezzano anche quelli che “su sardu putzi putzi”. Il problema è la qualità concettuale di troppi festival in terra sarda. Festival non di acculturazione (benedetto scambio di culture) ma di inculturazione (nefasta ingiunzione di culture esterne). “Frore bellu e galanu / paret gollid’in Continente”, prendono in giro gli esteromani antichi versi; traduco, non si sa mai: “Bei fiori / sembran raccolti / in Continente”.


Mi sono guardato un po’ di programmi di festival passati e, salvo lodevoli eccezioni, la stragrande maggioranza di essi sono pure e semplici sagre di inculturazione. Non è contemplato il fatto che essi si svolgano in una terra i cui abitanti per il 97,3 per cento parla o capisce la lingua sarda (o gallurese, algherese, tabarchina, sassarese) e che avrebbero voglia di acculturazione, di confronto con altre culture in un rapporto di dare e avere. 


Subiscono, invece, un’inculturazione in cui il rapporto dare e avere è pressappoco questo: gli indigeni danno formaggi, carni, dolci vini locali e, al più, qualche “pittoresco” ballu tundu, quello che, poverini, si ritrovano; hanno in cambio massicce dosi di Cultura (mi raccomando la C maiuscola, qui si parla di Cultura Vera, musicale, poetica, teatrale, letteraria). Ricevono, per farla corta, la Musica, il Teatro, la Poesia. E, soprattutto, la Letteratura. “La Sardegna” titolò l’anno scorso Liberazione un articolo sul Festival di Gavoi, “ospita la letteratura”. Porta, pare di capire, qualcosa che è in Sardegna non è ancora conosciuta.


Un altro quotidiano, nella stessa occasione, tirò il sospiro di sollievo che coglie quanti, invitati a una festa paesana, si accorgono di aver scampato il pericolo di trovarsi di fronte a compari che si scambiano le loro poesie. “Non solo autori sardi al festival di Gavoi” titolò infatti il manifesto. 


Quest’anno, il Festival “Isola delle storie” (altrui) ospita un centinaio di autori. Ci sarà pure qualche scrittore sardo? Sì, una e in italiano. Altro che confronto di culture. L’unico possibile sarà quello fra la cultura italiana e quelle all’Italia straniere. Perché scegliere un paese sardo per ospitare due giocatori che giocano fuori casa e degli spettatori non conoscono né lingua né cultura né, vedremo, la location? Perché almeno, si dice, di Gavoi, del suo festival e, in definitiva, della Sardegna si parla fuori dell’Isola.


Provate a vedere la rassegna stampa che riguarda il festival dello scorso anno. A parte i due articoli citati, solo altri cinque giornali non sardi dedicano qualche riga al festival cui uno attribuisce “il miracolo della rinascita di Gavoi”. Tutto il resto è cronaca dei quotidiani sardi. Niente di male, anzi. Ma la conoscenza che fuori si è avuta della “isola delle storie” (altrui) è stata scarsina davvero. Neppure la conoscenza del dove si trova Gavoi, da un quotidiano messo “nel suggestivo scenario del Supramonte e del Gennargentu”, evidentemente considerati luogo dello spirito e non luoghi geografici, lontani una quarantina di chilometri il primo, una sessantina il secondo.


Chiaro, né l’assessora né il governo sardo devono e possono sindacare sulle scelte dei patrons dei festival. Ci mancherebbe. Non sarebbe però male che, quando si sceglie chi, come e quanto finanziare, si dia almeno un’occhiata al beneficio che un determinato festival – quello di Gavoi come altri, va da sé – porta alla cultura sarda. Per le altre, l’italiana compresa, altri e ben più copiosi benefici sono a disposizione. Uno per tutti: la non molta cultura che fanno le televisioni (italiane e sarde) è in italiano. Soccorrere chi già è ricchissimo, non mi pare un gran atto di valore.


 
 
 



 
 
 

 

 
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