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CHISTIONES

21/07/2008 
Il punto di vista della Lorinczi? Il pregiudizio ideologico
[de Micheli Pinna]


Leggo l’intervista della professoressa Marinella Lorinczi rilasciata recentemente a Daniela Paba pubblicata in “l’altravoce.net”. Pur non avendo motivi per dubitare della sua competenza scientifica nelle discipline filologico-romanze, essendo la Lorinczi, professoressa di prima fascia, e quindi di massimo grado accademico nell’Università di Cagliari, ritengo però, da modesto sardofono, e da convinto militante della battaglia linguistica, rispetto all’uso ufficiale di un sardo standard, che alcune obiezioni ed appunti debbano essere mossi alle sue dichiarazioni.

In primo luogo: quando parliamo di lingua ufficiale, va da sé che parliamo di lingua dell’ufficio, ovvero di lingua utilizzata dallo Stato, o sue emanazioni, come nel caso della Regione, per redigere gli atti destinati alla comunicazione pubblica. (La comunicazione dello Stato non può che essere pubblica e ufficiale). E se lo Stato decide di emanare una legge come la 482 del 99 per la tutela delle lingue minoritarie, e se la Regione, espressione dello Stato nel territorio isolano, intende applicare lo spirito e la lettera della legge dello Stato cosa fa la professoressa Lorinczi? Si oppone?

Ma se capisco e condivido il fatto che ogni cittadino, in democrazia, possa esercitare il suo diritto critico ed anche di opposizione politica e culturale alle decisioni assunte dallo Stato e dalla Regione, non capisco i termini ed i modi dell’opposizione con i quali la professoressa Lorinczi conduce la sua battaglia contro.

Per esempio, non capisco la sua domanda “A che cosa serve una delibera…in L.S.C. se non la si capisce?” Intanto, chi è che non capisce? Cosa non si capisce? Io posso affermare ( la mia parola di sardofono logudorese centro settentrionale, a confronto con la sua, lettrice di Garau, autore che amo e che leggo con piacere) che anche senza alcun esercizio particolare, ad una lettura di primo acchitto, ho inteso tutto quanto è scritto nella delibera da lei citata e in tante altre redatte in L.S.C. Se volessi strafare le direi che ad una campionatura di circa cinquecento sardofoni da me effettuata in diverse località dell’isola, i sardofoni in qualunque varietà comprendono le deliberazioni redatte in L.S.C. dagli operatori degli sportelli linguistici comunali.

In ordine a tutto ciò mi sento di affermare che le ragioni della professoressa Lorinczi, se possono avere un senso dal punto di vista del pregiudizio ideologico, mi sembrano infondate dal punto di vista dell’esperienza quantitativo-statistica. Ma se anche ci fossero sardi o non sardi che non capiscono, come di fatto non capiscono, perché non sanno o perché non vogliono, credo che la Regione debba continuare a parlare e a scrivere in Sardo, il suo Sardo, per coloro che lo capiscono e che intendono passare dall’uso di una lingua locale a quello di una lingua intercomunicabile.

Credo che la Regione debba, anzi, implementare questo processo di intercomunicabilità tra le diverse parlate locali. La L.S.C. ne costituisce, al momento, a mio avviso, il miglior esperimento sia per la sua fondatezza scientifica, che per la sua strategia di democrazia linguistica. Bisogna, certo, investire in formazione, in ricerca, in promozione, in ricerca di consenso. E se l’Università non basta, come in molte circostanza ha mostrato e mostra di non bastare, si rende necessario guardare alle esperienze che fuori dall’Università sono maturate in questi anni, di cui la stessa Università, oltre che la Regione, potrebbe giovarsi.

Che i poeti e gli scrittori scrivano in logudorese, in campidanese, in lingua mescidata, in gainico o in qualunque altra modalità, va benissimo! Alla creatività e all’arte come alla parola calda dell’oralità non deve essere posto alcun vincolo e limite. L’atto di “parole”, non debbo essere io a dirlo, è, nella sua natura, dissonante, deviante, persino irripetibile nella sua aura e nel fascino che da essa promana. Mentre la “langue” è un atto costruttivo, indirizzato verso regole precise, e come tale persino costrittivo e compromissorio, nel senso che, nell’abito della “langue” ognuno rinuncia a qualcosa della sua individualità comunicativa ed espressiva.

Ma d’altra parte, potrebbe essere una delibera municipale o un’ordinanza, o una delibera provinciale o regionale redatta in gainico, in sorighese, in niffoiese, o secondo ritmi, assonanze e giochi linguistici, i più svariati, che solo la funzione poetica e l’intenzionalità creativa possono determinare? La professoressa Lorinczi, che è filologa di chiara fama, queste cose, credo, le sappia. E, se le sa, allora, perché si ostina a confondere i piani ed i livelli?

Per quanto riguarda il ruolo degli intellettuali, ognuno sia come sente di essere. Questo va bene. Ma chi, rispetto alla partita della lingua sarda si sente forestiero stia tranquillo. Vada per la sua strada. La coscienza ognuno ha la sua: c’è chi ha la coscienza del signore e chi quella del servo. Si diventa servi quando si rinuncia a lottare per esistere. Per quanto ci riguarda non intendiamo rinunciarvi.

La strada è lunga e difficile, ma il tempo, se, come si dice, è galantuomo, sono certo che ci ripagherà. Alla professoressa Lorinczi, e a quelli che la pensano come lei, regalerei un biglietto per Damasco, con l’augurio che, lungo la via, possano riflettere e valutare.


Michele Pinna






 
 
 

 

 
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