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Diretore: -       Coord.Editoriale: Micheli Ladu
CHISTIONES

14/07/2008 
Sighide gosi ca faghides pèrdere a Soru
[de Micheli Ladu]
“Se non puoi convicerli, confondili” naraiat su ditzu. “E dato che ci sei, insultali” dia a annànghere. In su giornale l’altravoce.net sunt essende dae pagu tempus artìculos de su diretore e de acadèmicos famados chi sunt iscriende a pitzu de s’istandard murrungende e ingiurgende chi paret apant pistighìngiu. Totu fatu, est ladinu, pro bullugiare s’abba e chircare de ingaddinare sa gente. Acabados sos tempos de sa dibata iscientìfica, bidu chi non nde bogant pee, si colat a s’atacu personale pro cuare un’idea issoro chi andat contra a sa limba sarda etotu.

Craru est chi cun sos datos chi sunt essende a campu in custas dies, ammentados in un’artìculu de Pintore, sos acadèmicos non fatzant una figura bona a in antis de sa gente sarda, datos de assustru chi belle∙belle nche ponent in segundu pianu sa matessi contierra linguìstica. Dinari fuliadu o torradu a coa cun resurtos che pare a zero, “alla faccia del business” de sos àteros gasi comente che pare a zero sunt istadas sas allegas in sardu ispadriadas in sas letziones, mancu unu zùmiu de sarrochesu o àtera variante biddaja. Ite fàghere tàndo? Bastat a si nche leare sa bestimenta de mortore e chìnghere cussa de vìtima bochidora. A Prof. Bolognesi, chi at tentu sa neghe de fàghere preguntas a unu computer a pitzu de sas variantes pro èssere su prus obietivu possìbile e non pònnere in contu peruna “percezione”, giai divenidu unu latin lover (biadu!), intames de li confutare sas tesis suas ant postu dudas a pitzu de sos tìtulos suos. Si custa est un’imposta de universitàrios, narade bois! 

Àteras galu,”iscedadeddas”, pranghe•pranghe si nche ismèntigant chi in sa chirca sotziolinguìstica si faeddaiat finas de istandard e cando sos contos non torraiant e calicunu(?) bi l’at fatu notare in pùblicu est istadu acusadu de ghetos violentos. Sa mèmula est semper sa matessi, lassare sas cosas comente sunt, ite est custu avrinzu pro una lege noa, custas dibatas che las connoschimus dae sos annos setanta! E tando deo mi dimando, bidu chi su Presidente Soru est istadu votadu ca est òmine de cambiamentu (in mègius) e de su “fàghere”si depet galu ascurtare sos cussìgios de chie cheret arrèschere sa limba in s’ungrone de su “nde faeddare” tìpica de cosas cosas “fatas e lassadas”. Mi timo, in coro, duncas chi cun totu custos cussìgios de su lassa∙lassa calicunu apat seberadu de fàghere perdere a Soru e paris cun isse a una polìtica bera e atziva pro sa limba sarda.

Micheli Ladu

 


Pro chie nde bolet ischire de prus legat inoghe giosso

 

Quanto arroganti i crociati della Lsc
protetti dalla Mongiu in clausura
Hanno anche plagiato Renato Soru?
di Giorgio Melis

Quanto sono arroganti, tracotanti, gonfi non casualmente di sicumera. Magari è l'effetto della consonanza con l'assessora Mongiu, che fa il pesce in barile, snobba e neanche si cura dei saggi e degli scritti sulla lingua sarda di Marinella Lorinczi, come prima di Anna Oppo, Giulio Angioni e altri: ai quali non è neanche degna di sciogliere i lacci dei sandali del sapere in materia. Se così fosse come sembra, l'assessora logudoresa sarà nominata in pubblico rito patrona dei crociati della Limba sarda comuna (Lsc), che non è affatto comuna, anzi estranea al 99,9 per cento dei sardi e dei sardofoni di ogni variante. Un'invenzione a tavolino, una faccenda inutile e costosa, un ridicolo, oneroso esperanto sardo - come è accaduto di scrivere più volte dal 2007 -che non va e non andrà mai oltre la cerchia della “bottega” che se l'è inventata, e ci marcia alla grande dentro e fuori la Regione: con soldi che potrebbero essere ben altrimenti spesi. Sembrano aver plagiato - facendo leva sulla sua profonda sardità interiore stavolta maldestramente interpretata e brandita - anche Renato Soru sulla necessità che la Regione si dovesse dare una lingua sarda tanto ufficiale quanto fasulla perché incomprensibile a tutti tranne a chi se l'è sognata e ci sguazza. Nel silenzio dei cosiddetti intellettuali: muti come pesci, specie se notoriamente in dissenso. Il solito coraggio dei chierici, tremolanti per opportunismo quando si tratta di prendere le distanze dal gruppo di potere di turno.

I crociati di questa stenterella creatura abortiva pseudo-linguistica, che mai sarebbe arrivata alla deambulazione autonoma senza le stampelle dei diktat e dei soldi regionali, sono arroganti per abitudine e altro. Di solito è delegato alle sortite e repliche aggressive Roberto Bolognesi. Al quale - dopo parecchi articoli pubblicati - non ho deliberatamente e convintamene dato accesso al giornale per la pesantezza, anche volgarità e supponenza arbitraria, di un non recente doppia replica a Marinella Lorinczi e in precedenza ad Anna Oppo, Giulio Angioni e altri. La buttano sempre sul personale. Pesantemente, con un'albagia che non possono consentirsi nel confronto con i titoli e l'attività scientifica degli intellettuali presi di mira. Fino a far sospettare che non sia tanto la passione per la LSC ad animarli ma anche altre, più concrete e operative ragioni: per cui occorre insultare, irridere, sminuire chi la pensa diverso. Come quando, delicatamente, Bolognesi, replicava che le argomentazioni di Marinella Lorinczi “anti segau is patatas”. Senza che l'assessora femminista Mongiu intervenisse: forse era in clausura per un dibattito iniziatico nel chiostro, ovvero nell'accademia della Lsc. Ora è banalmente frusto, scontato, sciatto e non spiritoso l' incipit di Diana “questa di Marinella è la storia vera”. Ma che originale! Tutto qui, uno stanco, ovvio richiamo da una abusata canzone di De André quel che (non) riesce a inventare un creativo della Limba sarda comuna, comunissima, col tracciato piatto quanto a idee e capacità di tradurle in un'espressione efficace ed elegante? Se questo è il livello medio-alto, allora la Lsc contribuirà in modo determinante all'evoluzione dell'intellettualità isolana e alle sue magnifiche sorti e progressive nell'egemonia sulla cultura mondiale. Non conosco personalmente la professoressa Lorinczi, non ha certo bisogno di difensori (infatti sto solo contestando, come faccio da due anni) i pasdaran di questa pietra non filosofale tranne per gli aspetti materiali della linguistica istituzionalizzata. Ma per quel che ho letto e saputo da fonti di alta qualificazione, la studiosa - oltre scrivere in un italiano che i contraddittori se lo sognano pur frequentando altre sei li ngue - merita tutta l'attenzione di tutti: inclusa (non casualmente?) la silente, non oracolare assessora. Qualunque comune (nell'accezione alta: non quella della Lsc) cittadino di media cultura non può che convenire con le sue rigorose argomentazioni infinitamente più convincenti delle norme autoritative, violente, con le quali si sta imponendo questa Lsc.

Non sono un linguista ma ho l'età e la memoria necessarie per ricordare benissimo le ben altre elevatezza e finalità che innervavano la rivendicazione politica per la lingua sarda partita da Giovanni Lilliu e altri padri nobili. Non per certo per buttarla in vacca inventandosi uno sgorbio di dialetto incomprensibile a tre quinti dei sardi ed estraneo, pur comprendendolo meglio, al resto. La Francia o la Germania, non meno che la Spagna e l'Inghilterra, avrebbero adottato come lingua ufficiale scritta una variante clandestina e minimale, assolutamente da non parlare anche perché nessuno la capirebbe? Un'idea così balzana, antistorica e antidemocratica poteva nascere solo in un'isola di mentecatti come la nostra. Oltretutto in danno della maggioranza che parla e capisce il campidanese: eppure mai si è sognata di invocare il numero per imporla sulle altri varianti. Ricordo una straordinaria trasmissione di due ore in tv con Tullio De Mauro, forse un filino più qualificato di Bolognesi, Diana e altri, che sottolineava come le lingue minori, in tutte le loro varianti, debbano essere rispettate senza eccezioni: senza egemonia pur comprensibile di quelle più diffuse ed elaborate perché insieme costituivano un patrimonio eccezionale per un popolo. Figurarsi imporre il primato abusivo di una variante residuale e ignota ai più, a parte pochissimi privilegiati che si riuniscono in una cabina telefonica per disquisirne. De Mauro stramazzerebbe a terra dalle risate se sapesse che qui si sta imponendo nell'ufficialità istituzionale una variante balbettante, nota solo a pochi adepti non disinteressati. Altro che “Le lingua tagliate” del famoso libro-guida di Cesare Salvi. In Sardegna ci stiamo cucinando la lingua salmistrata in versione imperativa, violenta e pure autocoloniale.

Sarà forse perché si conserva l'immagine persistente di persone conosciute da vicino in anni lontani, ma non riesco a ricordare - benché lo vedessi e ci parlassi quasi ogni giorno - una statura da creatore di nuove lingue e tanto meno un livello scientifico significativo in questo Giuseppe Corongiu che per diversi anni avevo applicato come corrispondente de “La Nuova Sardegna” per Quartu. Poi era stato assunto come addetto stampa del sindaco Graziano Milia (non senza passaggi burrascosi nei loro rapporti) e infine si era creato l'”ofitziu” per sa limba che ha riciclato con la Regione. Assolutamente niente di personale. È che mi pare una cosa assolutamente poco seria, anzi ridicola, estrapolare una microvariante dei Barigadu (chiedete a un sardo sotto i settant'anni cosa sia. I più fantasiosi vi risponderanno che forse è un paesino pugliese, magari di etnia albanese…) per farne ope legis la lingua scritta ufficiale dell'istituzione Regione e imporla a tutti pur essendo nota a 44 gatti in fila per sei col resto di due. Traducendo i discorsi in campidanese di Soru, quelli sennoresi di Cicito Morittu, le sortite nuoresi di Dadea e quelle aostane di Nerina Dirindin, le disposizioni antincendio e le norme anti-lingua blu pensate e scritte in italiano in questo idioma che i posteri attribuiranno a una tribù in piena fase involutiva.

Immaginate il sindaco di Badesi, Alghero, Carloforte, Tratalias che riceve l'ordinanza antincendio in Lsc e, per patriottismo, non ne legge la versione italiana. Che fa? Invia un messo a Cagliari a “s'ofitziu” Lsc di Corongiu per la traduzione pro-veritate previa consultazione via piccione viaggiatore con un centenario sordo del Barigadu addormentato sotto una quercia secolare a 800 metri di altezza. Si può buttare sul ridere ma è una faccenda seria. Con una conclusione esplicitata in italiano, giusto per nobilitare “is patatas” del fine dicitore Bolognesi. Ne facciamo tutti, di coglionate. Questa della Lsc è sesquipedale. Da ammettere senza alcuna esitazione, correggere e festa finita. Anche, anzi soprattutto nel silenzio dell'assessora che fa il pesce in barile (Lorinczi, Oppo, Angioni chi?) e specie dei temerari intellettuali da contratto e consulenza che ne pensano e dicono riservatamente tutto il male possibile ma tacciono, timorosi di dire una parola per non rischiare prebende e favori attuali e futuri. Persistere non è diabolico: è un raddoppio di coglioneria. Al quadrato: presto al cubo.





Sulla “limba” costruita a tavolino
un business estraneo alla cultura
ognuno parli il sardo che sa e vuole
di Cristina Lavinio

Con il suo divertente e colorito articolo sulla LSC (Limba Sarda Comuna), Giorgio Melis mi fa sentire in dovere di intervenire. Non vorrei essere confusa con i tanti intellettuali che, pur potendo parlare, tacciono. Tanto più che si tratta di questioni su cui tante volte, fin dai lontani anni '70, mi è capitato di scrivere e fare ricerca. Ma forse proprio per questo, ultimamente, non sono più intervenuta tanto spesso al riguardo. Con un'eccezione, però: tempo fa l'ho fatto (sorpresa!) usando il mio sardo (campidanese/sarrochese) e commentando con un “fiat ora!” il fatto che qualcuno dicesse: “Smettiamo di discettare tanto su quale sardo usare, e usiamo ciascuno il sardo che conosce. Forse, parlandolo di più, questo sardo, lo tuteleremo meglio di quanto si sia fatto finora discutendone all'infinito”. Cose di grande buon senso, dette nel suo sardo di Sanluri da Renato Soru.

Le mie poche righe in sardo, però, hanno registrato la reazione di alcuni noti e strenui sardofili da LSC che, meravigliati e ironici, si chiedevano se a scrivere quelle cose in sardo fosse la stessa grande antagonista della lingua sarda che, come illuminata sulla via di Damasco, avrebbe improvvisamente cambiato le proprie posizioni.

Mi dispiace deluderli: sono proprio la stessa persona (mai stata però antagonista di una lingua che è anche mia, assieme all'italiano), e non si sono accorti che quelle stesse cose le ho sempre dette. Anche se il fatto di averle dette, anzi scritte, per una volta, in sardo le ha fatte sembrare diverse.

Sempre gli stessi, da anni, i termini della questione: la ricerca ossessiva di una forma standard (o koiné), di una varietà unificante le diversità (per alcuni intollerabili) tra le varie parlate sarde. A costo di costruirla a tavolino. E come? vedendo la salvezza in una ortografia unificata -come se all'improvviso l'ortografia potesse far superare le differenze tra un “aicci” e un “gai”...- e costruendo una sorta di esperanto : prima una LSU (Limba Sarda Unificada), adesso una LSC, dopo essere passati per una limba de mesanìa... È chiaro, da tutto questo affannarsi, che la variazione linguistica e il plurilinguismo non piacciono proprio ai molti più o meno improvvisati limbisti nostrani. E dire che la legge 26 del 1997 riconosce questa varietà di parlate, sarde e non (compreso catalano e tabarchino), coesistenti nel territorio isolano, considerandole una ricchezza.

Ma oggi sentiamo dire che bisognerebbe superare la legge 26, e che c'è proprio bisogno di una LSC, e non solo come atto simbolico, di varietà burocratica da usare “in uscita” negli atti pubblici. Anche se nessuno sentirà il bisogno di leggere in LSC quanto sicuramente capirebbe meglio in italiano. Ma nella pratica desiderante di molti questo dovrebbe essere invece un piccolo-grande business per fare inutili traduzioni di tutto, per organizzare ovunque corsi di LSC e per dar fiato a una grande editoria in LSC. E c'è chi fa già corsi e spera in bandi di concorso in cui si diano punteggi e crediti a chi sappia tradurre qualunque cosa in LSC.

E molti a difendere questa scelta, e a farsi passare per grandi e autorevoli esperti di cose linguistiche... Chissà perché, per parlare di altre materie (dalla storia all'archeologia, dalla medicina alla botanica) ed esserne riconosciuti esperti bisogna averle studiate, quelle materie. Invece per parlare di cose linguistiche, lo studio scientifico, o almeno la conoscenza dei principi fondamentali di discipline come la linguistica o la sociolinguistica, non sembrano necessari. Chiunque si sente autorizzato a dire cosa bisogna fare e come si possono e devono costruire le lingue per “salvarle”. Certamente, per un sociolinguista o per un antropologo anche le opinioni che i parlanti più comuni hanno a proposito di cose linguistiche sono interessanti oggetti di studio. Ma non per questo bisogna evitare di chiamare le stupidaggini, se tali sono, con il loro nome. Mi è capitato di constatare che chi pontifica sulla LSC mostra di non sapere cosa siano e come funzionino le lingue “storico-naturali” e respinga addirittura come una stranezza il fatto che alle lingue si addica tale attributo. Ed è come se pretendesse di essere un matematico chi non conoscesse i numeri primi... 

Smettiamola dunque di parlare di cose che non si conoscono o di dare credito a chi non le conosce. E se chi vuole scendere sul terreno della politica linguistica ascoltasse qualche esperto (vero) in più non sarebbe male. Come trovarlo? qualche piccola esplorazione in rete (con un occhio agli “impact factor” canonici) potrebbe forse essere d'aiuto.









Mongiu è “innocente” sulle scelte regionali
di politica linguistica, la Lsc imposta
prima da altri, la dura “scomunica” di Soru
di Anna Oppo

Scrivo un pò costretta, da un lato per prendere qualche distanza dalle affermazioni di Giorgio Melis che mi ha tirato in ballo in un suo articolo, dall'altro per una più puntuale assunzione di responsabilità personale. Ricapitolo brevemente quali sono stati i miei rapporti con la Regione o, se si vuole, col problema dei dialetti locali. Due anni fa avevo prodotto il rapporto di ricerca chiamato “Le lingue dei sardi”, risultato di una survey sull'uso dei dialetti in Sardegna commissionato dalla Regione Sardegna, Assessorato alla cultura, a due dipartimenti delle Università sarde allo scopo - così avevo capito io - di avere un quadro generale sullo status attuale dei dialetti sardi e non sardi a cui avrebbero dovuto seguire ricerche sociolinguistiche più mirate, qualitative e non più quantitative, allo scopo di avere informazioni il più possibili puntuali per disegnare una politica o una pianificazione linguistica capace, se non di rivitalizzare, almeno di arrestare un declino che sembrava ormai irreversibile. Per chi aveva orecchie per sentire o avesse un minimo di familiarità col piccolo corpus di ricerche sull'argomento non era affatto un mistero, infatti, che negli ultimi trenta-quarant'anni l'italianizzazione dei sardi - sub specie di italiano regionale - era stata imponente, molto più veloce e profonda che in altre regioni italiane in riferimento ai loro rispettivi dialetti.

Per inciso, questo non è successo solo per la lingua: nei cambiamenti sociali - o, se si vuole, nella modernizzazione - partiamo sempre con un “ritardo” più o meno consistente ma poi ci mettiamo a correre e raggiungiamo, in molti campi, le medie nazionali, nel bene e nel male. Così è successo nelle trasformazioni della famiglia e della parentela, nei comportamenti sessuali e riproduttivi, negli standard dei consumi e, almeno fino alla fine degli anni Ottanta, nella scolarizzazione. E così è successo con i dialetti.

I risultati della survey sociolinguistica sono stati quelli che ci si poteva aspettare, senza grandi sorprese: da un lato la quasi scomparsa della trasmissione intergenerazionale dei dialetti ( a parte il tabarchino), dall'altro un grande attaccamento sentimentale dei sardi nei confronti delle loro lingue. Questi due risultati essenziali - anche per qualunque politica linguistica - sono finiti nello sfondo mentre, nella discussione e nella polemica immediata, sono stati discussi altri dati, non proprio centrali, letti, il più delle volte, in maniera scorretta. In alcuni casi tale scorrettezza è stata strumentale, per portare acqua a qualche mulino, nella maggior parte dei casi questo è successo per la poca familiarità dei linguisti o pseudo- tali con la metodologia delle surveys e il significato dei dati che da queste si possono trarre. Numeri e tavole, si sa, risultano ostici agli “umanisti” e alla cultura italiana in generale.

Non sono in grado, per carattere e per lunga consuetudine, di discutere né con i mestatori né con gli sprovveduti. Avevo discusso della metodologia della ricerca con studiosi estranei alle beghe locali - che mi avevano rassicurato, quando non elogiato - e avevo risposto in maniera molto urbana ad una lettera di insulti personali del dottor Bolognesi ( non mi è risulta sia professore in qualche università). Ma chi ha delegittimato la mia ricerca è stato il presidente Soru in persona, in pubblico e in maniera violenta. Non so perché lo abbia fatto e neanche mi interessa più saperlo. So che c'ero rimasta molto male e ancora mi è rimasta una grande paura, anche fisica, del presidente Soru. Come si vede, in questa vicenda, la professoressa Mongiu non c'entra nulla, non era ancora assessora, era allora solo una persona che conoscevo da lunga data, che mi era simpatica. Il risultato della scomunica presidenziale è stato, comunque, che sulla mia ricerca è calato il silenzio, ad eccezione di qualche residuo attacco nei siti internet del “partito della lingua”, anche rivolti a qualche mio innocente collaboratore. Innocente poiché avevo deciso io di far scrivere parti del rapporto alle persone che più o meno intensamente avevano lavorato alla ricerca - lo faccio sempre, specie con i più giovani - ma non c'è parola nel rapporto che sia sfuggita al mio controllo, alle mie correzioni o alle mie censure o aperture. Allo stesso modo non c'è stato nessun passaggio della ricerca, più o meno delicato, o più o meno controverso, che non sia stato deciso da me. Così, nel bene o nel male, la persona responsabile sono io. Se ancora c'è qualcuno che ha voglia di contestare contesti me, non altri.

Sulla LSC o su logudorese e campidanese non mi sono mai pronunciata fino alla conclusione della ricerca perché, nella mia ingenuità di stampo weberiano, credo ancora nella distinzione fra fatti e valori e, in genere, quando faccio ricerca, anche quantitativa, cerco di far emergere la voce dei soggetti protagonisti della ricerca, piuttosto che la mia, che non conta molto. Poi, certo, ci sono le mie opzioni di valore, politiche. E queste sono un pò scontate per una che fa il mio mestiere: credo che si debba cercare di salvare tutte le lingue morenti, anche quelle in cui esista ormai solo un parlante, pazientemente interrogato da qualche esperto etnolinguista che poi ci dedicherà la vita. E che, certamente, per lingue borderline come il sardo, occorra una politica linguistica, con molti strumenti, possibilmente leggeri e mirati, perché le lingue in declino, come i malati gravi, richiedono mano esperta e delicata. E anche molti studi, sempre più approfonditi. LSC o varianti linguistiche “naturali” andrebbero scelte in base alla loro capacità di raggiungere l'obiettivo, di salvare il salvabile. Su questo, essenzialmente, si sono bisticciati e si bisticciano i linguisti in buona fede come, ad esempio, Marinella Lorinczi e anche altri che sono intervenuti in passato. Ora il dibattito si è un pò spento, è stata adottata la LSC e che altro possono dire quelli che non erano d'accordo? Il resto sono chiacchiere, pettegolezzi, forme di dissenso improprie.

Personalmente non conosco molto bene la politica regionale sulla lingua né so di preciso chi ci lavori ma ad un certo punto credo che raccoglierò tutti i dati, perché mi interessa molto fare qualche consuntivo, anche provvisorio, di una politica linguistica. E sinceramente sarei molto contenta se producesse qualche risultato. Per il momento faccio altro, compresa la scrittura di una monografia sullle lingue minoritarie che parte proprio dai miei tanti bistrattati dati. Che però sono metodologicamente molto buoni, me lo direbbe anche P. Lazarsfeld se risuscitasse. Non capita spesso con le surveys, noi siamo stati fortunati. Ed io della ricerca sono contenta e, inoltre, non ho tempo per fare pettegolezzi che non siano su storie d'amore e dintorni. E la professessa Mongiu continua ad essermi simpatica, forse anche perché non seguo con molta attenzione la politica regionale.


 
 
 

 

 
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