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08/12/2005 Lìteras 

Surrungios de unu sardu

de Matteo Peru


Un amico sardo , da anni ormai lontano dalla Sardegna mi ha scritto una lettera molto commovente sui ricordi della sua infanzia trascorsa nell’isola, sui nonni , sul padre che non c’è più. Mi piace mandarvela a “Dairiulimba” perché merita attenzione la nostalgia di un sardo: Matteo Peru che abita da tanti anni a Trieste

Cari saluti,

Maria Luisa Sotgiu

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Cara Maria Luisa,



dopo lunga assenza (dovuta a impegni lavorativi, oltre che alla mia indolenza felina...), oggi ho il tempo, e la voglia, e forse la necessità, di parlare di nostalgia e di nostalgie, di Sardegna e di altro.



Il 21 Febbraio di 5 anni fa moriva mio padre ed ora, paradossalmente, lo sento molto più vicino, e mancante, di quanto lo fosse ancora in vita.

La nostalgia della mia Sardegna non vissuta, ma profondamente interiorizzata, è fatta anche di mio padre, militare di carriera, Generale dell'Esercito, Brigata Sassari, intimamente sardo e soldato, nel bene e nel male, come mio nonno, suo padre, che sacrificò la sua breve vita sul Col di Lana nel 1917. Mio padre così graniticamente isolano, gallurese, militare, parco di tenerezze verso un figlio maschio, ma generoso (e quanto gli sono debitore!) di esempio e dedizione, di principi e sentimenti forti, quasi selvaggi, totalizzanti ed esclusivi.

Ora mio padre riposa nel piccolo e lindo cimitero di S. Teresa di Gallura, nella tomba di famiglia, a un passo dal mare, tra frequenti richiami di gabbiani e raffiche di maestrale.

Il ricordo, e la presenza di mio padre, ridestano anche altre memorie, lontane, di un altro sardo roccioso ed antico, Umberto, mio nonno materno, nativo di Bosa, morto 40 anni fa, io bambino di appena 8 anni.

Nonno Umberto, già in pensione, un signore vestito di scuro, camicia bianca, sobria cravatta nera e cappello, con una folta e ondulata capigliatura argentea, anche a 80 anni: a volte, e immagino quasi me lo concedesse come premio e sottintesa (per pudicizia sentimentale) manifestazione di affetto, andavamo insieme al mercato di Sassari; per me era un grande onore accompagnarlo, con un vago senso di timoroso rispetto nei suoi confronti, in quell'universo colorato, pieno di voci squillanti in dialetto, quasi dei mantra, che misticamente esaltavano le qualità dei generi in vendita; e mio nonno osservava, valutava, contestava il prezzo e la freschezza, e con dialettale arguzia (lui, cultore di latino, di "belle lettere" e di corretto italiano) spesso poneva bruscamente fine alla mercantile trattativa, con sua piena soddisfazione ed altrettanta, immagino, rassegnazione da parte del frustrato e sconfitto venditore. 

Mio nonno Umberto è un altro frammento importante della mia Sardegna, con quel suo essere il classico pater familias dell'antica Roma, sette figli e consorte devota, interamente dedita a lui, un po' padre padrone: i figli, per quanto abbia io percepito, erano forse per lui, non so per quanta parte e quanto consciamente, il vero patrimonio, la "roba", pure intimamente amata, ma dalla quale si aspettava sottomissione e rispetto totali, prole da custodire e tramandare e rendere depositaria di una eredità fondamentalmente emotiva e spirituale. 

La moglie devota, mia nonna Mariantonia, la ricordo veramente come una consapevole e volontaria e convinta vestale, fragile all'apparenza, ma capace di contenere e trattenere infiniti pensieri e fatiche, affanni e dolori, e di vivere e soffrire appieno affetti estremi. Mi piacerebbe, ora, alla mia età, avere a fianco un interlocutore sapido e brillante ed arguto come mio nonno Umberto, sempre avidamente curioso del nuovo e dell'insolito, lui così saldamente ancorato alle sue inattaccabili e tetragone certezze arcaiche; avremmo certo discusso, e forse litigato, ed affrontato estenuanti battaglie dialettiche, magari solo per il piacere di un reciproco arricchimento oratorio. 

Ho anche vaghe reminiscenze di incontri e colloqui tra mio nonno materno e mio padre (magari in presenza di mia madre, figlia e moglie, muta e trepidante testimone), ma li posso immaginare come confronti in cui nessuno dei due poteva, o voleva oppure osava cedere all'altro la supremazia dell'ultima parola, pur stimandosi reciprocamente e profondamente, e rispecchiandosi, per molti versi, l'uno nell'altro. 

Ancora mio padre, dunque, e Santa Teresa di Gallura, e la Sardegna, il mio luogo dell'anima, la mia isola che (forse) non c'è, e tuttavia è immanente, in me e per sempre, fatta soprattutto di lunghe, infinite estati, quasi un universo bastante a se' stesso, che non è, tuttavia, solo ricordo, ma mia personale ed intima ed assoluta ricchezza.

Se chiudo gli occhi riesco, letteralmente, a ripercorrere, e rivedere, e rivivere, nei minimi dettagli, le vie e la piazza assolata e gli spazi luminosi, statuari e scolpiti, di S. Teresa, i profumi della macchia, il mirto e il lentischio, e il lucente smeraldo dell'acqua, e le vertigini delle scogliere dai colori cangianti nello scorrere del giorno e i lecci inchinati al maestrale e il salmastro ventoso della Gallura; rivivo l'atmosfera di vacanze scolastiche felicemente interminabili, dalla metà di Giugno a fine Settembre, circondato dai vizi, alimentari e sentimentali, elargiti a piene mani dalla mia nonna paterna, Giovanna, piccola e sempre vestita di scuro, lei, vedova da infiniti anni, e per questo patriarcale nei suoi atteggiamenti, virili, e a volte, con altri, intolleranti, ma sempre, lei, con me solo, eternamente tenera e sottomessa, servizievole e affettuosa, e timorosa di non essere all'altezza dell'amore che mi portava e che le portavo e le porto.

Chiudo gli occhi e mi ritrovo, senza sforzo, nella casa delle mie giovani estati a S. Teresa, nella camera accanto a quella di nonna Giovanna, disteso sul grande letto di ottone decorato, così alto da terra, nell'intervallo tra il pranzo (rigorosamente e immancabilmente a mezzogiorno) e la pomeridiana discesa in spiaggia: leggevo, o sonnecchiavo, o solo fantasticavo, e pregustavo il mare, e gli amici, i giochi e i tormentati primi amori, in quelle due ore infinite di vita sospesa, nel narcotico silenzio della sacrosanta e rispettatissima e rituale siesta della nonna; ho il netto ricordo di un mio ipnotico fluttuare in un altrove atemporale e parallelo ma distinto dal reale, scandito da indefiniti rumori lontani, trasmessi da un esterno ovattato dalle spesse mura di granito della casa, suoni accompagnati da una luce densa, liquida, che filtrava impertinente e tagliata di netto, fra i ristretti spazi delle persiane socchiuse. Ripenso spesso a quelle atmosfere, da allora raramente rivissute, fatte di sentimenti così vivi da essere quasi dolorosi, che percepisco ancora oggi, nel ricordo e nella nostalgia, con immutata intensità, come avvolti dal gusto mielato della giovinezza e dalle totalizzanti passioni dell'adolescenza, rinchiusi e definiti e scanditi da colori ed immagini di una Macondo personale, alla Garcia Marquez, in una vivida terra di nessuno, sospesa tra il sogno e il mio esistere quotidiano, eppure estremamente reale e vicina, come la Sardegna che amo, come la mia isola che (forse) non c'è.

Eccole, le mie nostalgie, per la Sardegna che avevo e che nessuno potrà rubarmi, per i miei vecchi e per i miei giovani affetti e amori, ecco alcuni dei miei ricordi, che oggi dedico a mio padre, che è qui con me, dopo cinque anni volati e non perduti e per tanti altri anni che, non sempre senza affanni, spero lievemente passeranno, accompagnati dalla presenza e dalla tenerezza di chi oggi mi è accanto, mia moglie e mio figlio.



A presto, Maria Luisa e un caro saluto,

Matteo

A segus