© LimbaSarda 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18/12/2004 Rassigna de s'imprenta - L'Unione Sarda 

"Sa limba e l'orgoglio sardo"

di Giulio Angioni

(Po comente dda pentzaus nos, est istau su disisperu a ispinghere Giuliu Angioni, intellettuale dae trint'annos
impignau in d'una batalla personale contras a sa limba, a iscriere un'articulu in s'Unione Sarda prenu de malesa  e de atragagios contras a chie triballat po s'identidade. Di fatis, issu faet parte de una cumpàrticula de iscrittores e giallistas chi in capas iant cunvintu su partidu de Progetto Sardegna a non faeddare de limba in campagna elettorale. 
A cantu paret peroe , como, sa linia polìtica est mudando. E Angioni e is amigos suos sunt disisperaos. Ite faere? 
Chircare de pesare pruine in is giornales torrando a faeddare de limba eja, limba nono, comente e sèmpere. Pèrdere tempus  in chistiones inutilosas. Batallare po de badas. Ma custu est unu tentativu feu. Su dibattu beru est ite faere e comente. Sas leges sunt passadas. Su bilinguismu cheret fattu. Si depet faeddare de su comente. Custa est sa beridade. Duncas, su consigiu chi giaeus nos est de no arrespondere, de no ddi giare importantzia. Su disisperu si ddu mantengiat issu. Nos seus cuntentos de èssere sardos e de foeddare in limba. No est unu probrema po nos, est sa dechida normalidade de sa vida nosta. )

GIULIO ANGIONI
"Sa limba e l'orgoglio sardo" in L'Unione Sarda 16.12.04

Le recenti ventate di orgoglio etno-linguistico sono un bene, in un luogo come la Sardegna abituata a riconoscersi in negativo. Certo, si esagera proclamando che se si promuove sa limba, si è già fatto l'essenziale, e che se si perde la "battaglia per la limba" si perde tutto. Ma da noi non si spara in nome dell'identità, quindi non è urgente proporre un disarmo dei sentimenti di appartenenza etnica, compresa quella linguistica, dato che è meglio dover discutere di politica linguistica che di sequestri e di dinamite intimidatrice. La questione del destino del sardo è seria almeno perché occupa le menti e i cuori di molti, a parte le esagerazioni, come il dimenticare che anche il toscano-italiano in Sardegna si usa da circa un millennio, e dunque l'italiano non è cosa che non ci riguardi per la nostra identità, oggi che l'italiano è cosa di tutti i sardi. Ma che fare per evitare la fine del sardo? È una fine inevitabile come la fine di modi di vestire e di abitare, su cui da noi si piange molto di meno?
È giusto volere che ciò non accada senza nostro controllo, pur sapendo che anche le lingue hanno tendenze incoercibili e non acquistano importanza principalmente per decreto: o meglio, ciò che non si ottiene altrimenti, in questi casi non si ottiene per legge. Quale mai decreto inibirà la tendenza dei genitori sardi a parlare ai figli l'italiano, o cambierà il fatto che il sardo non è usato più dai ceti più alti e più colti? Il plurilinguismo esiste ancora, anche in Sardegna come in quasi tutto il resto del mondo, e la maggior parte dei sardi è almeno bilingue: però con diglossia, cioè con un uso differenziato delle due lingue: l'italiano ha tutti gli usi alti e bassi, alle parlate sarde restano gli usi "bassi" dell'oralità. La legge regionale 26/97 sembra volere eliminare la diglossia arrivando alla pari "dignità" e importanza ufficiale e pratica dell'italiano e del "sardo".
Perché, a quale scopo? Su questo manca ogni chiarezza. Visto però che oggi non c'è bisogno di una lingua veicolare comune a tutti i sardi, che per questo hanno l'italiano, a che scopo "promuovere" o "tutelare" o "salvaguardare" il sardo? Pare evidente che il solo scopo è quello dell'orgoglio identitario. Se infatti oggi quasi nessun sardo ha più difficoltà con l'italiano lingua ufficiale e di cultura, un qualche sardo ufficializzato sarebbe una difficoltà per buona parte dei sardi. Ma allora diciamoci chiaro che vogliamo un sardo per l'orgoglio sardo e smettiamo di fingere un bisogno politico-amministrativo-culturale di un sardo ufficiale, che tra l'altro deve fare i conti con gli orgogli linguistici locali
campidanesi, logudoresi, galluresi, barbaricini, algheresi, carlofortini e altri ancora.
Oggi da noi si discute solo sul come. C'è chi è contro le parlare locali in nome di una penetrazione più profonda dell'italiano. E questa è la posizione meno dichiarata, meno sbandierata, che non gode affatto di buona stampa: i suoi sostenitori espliciti passano per tagliatori di lingue, traditori della patria sarda. Basterebbe definirli semplicemente ignoranti, anche se sono una silenziosa, e sorniona maggioranza, magari sempre disposta a fare dichiarazioni sardistiche, che tanto non costano niente, ci salvano l'anima e sono pure moda, come la proclamazione vuota che il sardo è una lingua e non un dialetto. Ci sono poi altre posizioni, ma in ogni caso si trova solo gente che sente disagio per questo stato di cose, sia perché si vive male il fatto che il sardo è un insieme di parlate di secondo rango, sempre perdente e oggi in ritirata più rapida di fronte all'italiano (e all'inglese), sia perché si vorrebbe per l'italiano partita vinta contro i dialetti e le parlate locali "inferiori" ancora apprese come lingua materna. È raro, ma non proprio assente, chi propone un capovolgimento a favore del sardo con marginalizzazione dell'italiano, o addiritura un monolinguismo sardo con bando dell'italiano. C'è chi sostiene, e il nostro legislatore sembra essere di questo parere, che bisogna introdurre ufficialmente la lingua sarda in tutti gli ambiti d'uso, quindi soprattutto in quegli ufficiali e scritti. Il destino del sardo è visto nell'alternativa: o diventare lingua di cultura e dell'ufficialità orale e scritta, o la fine. Forse tra le cose che la legge suggerisce c'è l'insegnamento del sardo nelle scuole dell'obbligo. Ma se si tratta di insegnarlo, solo per esempio, se ne può vedere subito e facilmente una difficoltà: a parte il problema di quale sardo insegnare, posto che si decida d'insegnare la variante locale, che cosa insegnare a chi già conosce un sardo locale? Solo a scriverlo? E per quanto riguarda chi non lo conosce, quando mai una lingua si è imparata a scuola? L'insegnamento scolastico,
quindi, si deve proporre scopi differenziati e difficili da contemperare, da organizzare e da ottenere, e costosi.
Tra le ipotesi da considerare, laicamente, c'è anche che la causa di un qualche sardo come lingua ufficiale delle relazioni pubbliche sia già una causa persa, e forse, essendo vero questo, certi intellettuali locali e certi politici possono smettere di fare come Pilato, buttando su altri la responsabilità di non volere e non riuscire a fare ciò che essi si limitano a proclamare. In effetti, in Sardegna e possibile che non ci sia una volontà generale abbastanza forte per compiere un'impresa ardua e costosa come la costruzione e l'uso di una qualche forma ufficiale di sardo, molto più ardua e costosa di quanto non hanno immaginato finora i politici e certi paladini del sardo poco informati delle difficoltà da affrontare, ma fanno proclami estremistici, si mostrano incapaci di reclutare le forze e si accaniscono contro presunti nemici interni accusati di tradimento, di scarso sardismo, di esterofilia linguistica e di altre vergogne. Lo status quo non piace a nessuno in fatto di situazione linguistica della Sardegna. E se invece fosse proprio questa, quale oggi esiste e si va evolvendo, la scelta meno insoddisfacente per tutti, e quindi da preservare? La domanda non è ne retorica ne provocatoria, ma è provocata dal fatto che la situazione che si vuole cambiare cambia anche senza di noi e contro di noi. Preservarla significa conservare e non perdere altri parlanti sardi, che rischiano di essere una specie in estinzione come i parlanti celtico. Uno scopo come la preservazione della situazione esistente non è troppo irrealistico e quindi  non è troppo generatore di disillusioni. Anche conservare la situazioneesistente è arduo, significa ottenere che tutti quelli che nascono oggi da genitori parlanti sardo, o abbiano almeno nonni parlanti sardo, imparino il sardo come lingua materna. In quanto al sardo a scuola, nessuno al mondo ha mai imparato una lingua solo a scuola, tanto meno una lingua costruita come una lingua sarda unificata o come un sardo de mesania. Intanto, per quanto  riguarda la consapevolezza della situazione linguistica, le cose in Sardegna  stanno meglio di ieri, quando non se ne parlava quasi affatto: perché era troppo evidente, a chi aveva voce in capitolo (dal maestro al parroco al podestà e al farmacista), che il sardo era da meno e che l'italiano serviva  a farsi strada nella vita, e quindi si auspicava più italiano e meno sardo.
Il sardo era dominante e si poneva il problema di apprendere l'italiano, magari anche scritto: solo che si pensava il sardo come un ostacolo all'apprendimento dell'italiano, e che l'italiano avesse solo da guadagnare  dall'indebolimento (e dalla repressione) del sardo. Abbiamo imparato che il  plurilinguismo è normale da noi come nel resto del mondo, che anche lo scemo del paese è un bilingue in un paese di bilingui. Dunque se è importante il  come, più importante è ciò che si dice, e quanta voce si ha in capitolo,   qualunque lingua si finisca per parlare. Difficile prendere sul serio chi affermasse il contrario: nessun popolo rimane a corto di parole, se ha da  dire. Oggi da noi non è rara la consapevolezza che una maggior conoscenza  anche scolastica dell'una e dell'altra lingua è un vantaggio, un arricchimento, e che è un'occasione per un recupero di coscienza storica e sociale di ciò che siamo, siamo stati e vogliamo essere in futuro. Troppi pero hanno il piglio di chi si sente vestale o sacerdote della sardità, e quindi sono troppo indifferenti ai modi, ai tempi, alle difficoltà e ai costi delle imprese proclamate. E la legge stessa, volendo fare genericamente tutto in materia di cultura e di lingua in   Sardegna, non aiuta a fare davvero bene qualcosa, come appunto una migliore formazione linguistica degli insegnanti in Sardegna. Spero di sbagliarmi, ma non vedo cento persone, in Sardegna, tra  quelli che sgomitano per accedere ai posti e ai finanziamenti della legge sulla cultura e sulla lingua, che siano in grado di fare qualcosa anche solo nel senso delle utopie, e non pare avere torto chi vede in questa legge un richiamo per i furbi in mala fede e per gli sciocchi in buona fede.
Se noi sardi abbiamo ancora bisogno di aumentare l'autostima, di non vergognarci di essere ciò che siamo e siamo stati, se dunque abbiamo anche bisogno di miti e di utopie identitarie positive, questa legge può ancora servire: ma non facciamo l'errore di restare convinti che l'amore per questa nostra terra si possa manifestare principalmente nei termini di questa legge, e che dunque i suoi applicatori avrebbero il monopolio dell'amore della Sardegna (e magari anche dei finanziamenti). Mentre già sbollono gli entusiasmi, calma e riflessione, anche per evitare che poi la delusione sia troppo grande, quando a conti fatti risulteranno bruscolini comperati a suon di milioni di euro. Ma non sarà perché noi sardi siamo i soliti incapaci. E' regolarmente successo altrove in casi simili al nostro che si sia ottenuto poco, oltre i proclami, gli slanci patriottici, i circoli di irriducibili, un po' di segnaletica stradale e premi e feste in lingue locali. In materia  di politica linguistica, anche in Sardegna avremo ancora a lungo gli atti di  fede, che forse qui da noi sono  ancora necessari. Per fortuna    però ciò che è  fattibile da noi nel nostro piccolo  si fa, a partire almeno da  Vincenzo   Porru e da Giovanni  Spano (o dall'Arquer e dal Fara già nel Cinquecento), anche senza iniezioni di orgoglio etnico  sotto forma di finanziamenti pubblici.

A segus