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11/04/2006 Sèberos de imprenta - La Nuova 10.04.2006

Pastores, cuncordade-bos pro su benidore, ma chene pérdere s'identidade


«Pastori preparatevi al futuro ma senza perdere l’identità» [Cultura] 





L’antropologo Bachisio Bandinu nel suo nuovo libro analizza a fondo il mondo delle campagne 



CAGLIARI. «Ai pastori sardi, con l’augurio di continuare le loro tradizioni nel confronto aperto con le nuove esigenze della modernità»: è la dedica affettuosa che Bachisio Bandinu rivolge dall’interno, lui che viene proprio da quel pianeta, al mondo degli allevatori nel suo nuovo libro - «Pastoralismo in Sardegna, cultura e identità di un popolo» -, uscito qualche giorno fa per Zonza, con foto di Gianflorest Pani e Rosi Giua.
E una riflessione a tutto campo sull’universo dolceamaro dell’isola interiore, incantesimi e tragedie.
Incontriamo il professore nella sua casa cagliaritana sul colle di Bonaria. Riassumiamo, da un lungo colloquio con lui sulle pieghe recondite del pastoralismo in cui è nato e cresciuto e che ora studia con i delicati strumenti dell’analisi psico-antropologica.
-Tu dici: essere pastore è un modo di vivere. Perché?
«Nella nostra comunità esiste su dischente, l’apprendista che impara un mestiere: il fabbro, il calzolaio, il falegname. Per il pastore non è così. Eppure i mestieri sono dentro il mondo pastorale, c’è la figura di chi impara attraverso l’esercizio della mani, osservando. Il pastore no».
-Vuoi dire che pastori si nasce?
«Diciamo che non si diventa. Devi essere in quel mondo e di quel mondo. Nell’ovile tu non impari le cose attraverso un esercizio tecnico-pratico, devi assorbire proprio quell’universo e quel modo di fare, quei linguaggi segreti e nascosti. Non impari a mungere se prima non ti adatti al freddo e al caldo, alla luce piena e al buio totale: soltanto dopo questa iniziazione ai misteri, la mungitura diventa un apprendimento automatico. E così in tutte le cose: condurre il gregge al pascolo e in transumanza, riportarlo all’ovile. Tutto si pone dentro un esercizio di apprendimento dei linguaggi del corpo, di assuefazione a un sistema complesso che non è di tipo tecnico-pratico».
- Quindi devi imparare a “condurre” anche la lingua...
«C’è un linguaggio biddaresu, paesano, quotidiano, di chi vive in paese. Nell’ovile la parola è trattenuta, pensata più che detta, misurata. E tu la devi intuire, perché non c’è sovrabbondanza di parola ma una lettura del comportamento. La parola interviene al momento opportuno ma sempre con misura».
- A rompere i silenzi lunghi?
«Il rapporto tra silenzio e parola è fondamentale, nell’ovile».
- Nel paese no?
«Sì. Anche nel paese. Ma molto meno. Nella campagna il silenzio è un linguaggio, mentre nel mondo esterno nostro di oggi il mutismo non è un linguaggio. Istare a sa muda, star zitti, è un linguaggio. Bisogna imparare a tacere. Il concetto fondamentale è sempre: tàncati sa’uca, medi su faeddu (chiudi la bocca, misura la parola)».
- Parlare è rischioso?
«La parola è difficile da tenere a freno: quando non è rischiosa può essere superflua. Bisogna indovinare l’intervento nella comunicazione, che nell’ovile è fatta anche di silenzi. Il pastore, vivendo da solo, si abitua a misurare la parola nel suo monologo interiore, nel soliloquio».
- Un autocontrollo?
«Senza dubbio. Quando invece un pastore incontra un altro pastore, un confinante di pascolo, allora gli fa piacere parlare. Esiste una frase che spiega molto: s’at fatu una pasta’e arréjonu, si è fatto una mangiata di parole. Il silenzio ha un suo controcampo: la parola distesa, la parola del ragionamento, desiderio e pulsione trattenuti a lungo dal silenzio nella solitudine della tanca».
- Senza più filtri?
«No, no. Il filtro c’è sempre. La parola non è mai disarmata, neppure in un contesto di discorso disteso».
- Quando avviene il riconoscimento comunitario del valore di un pastore?
«Pastore bonu è chi sa accudire il gregge con sapienza, intelligenza e dedizione. Una gama bene mantesa, un gregge ben tenuto, è un dato obiettivo: lo si vede dalla lana. Badare al gregge significa sapere quale carico di bestiame può reggere la tanca in una stagione o in un anno, come fare in modo che le pecore stiano al meglio. Il paese sa leggere dall’esterno dentro la bisaccia del pastore che rientra a casa a cavallo: se contiene quattro forme di formaggio romano il verdetto comunitario sarà positivo».
- E solo questa la categoria di giudizio?
«Ce n’è un’altra più importante, riferita complessivamente all’uomo, che deve essere serio o anche balente, ma nel senso positivo del termine: chi interpreta al meglio la sua condizione di pastore».
- In questo pianeta severo quale ruolo è affidato alla donna?
«La moglie del pastore è padrona della casa, vive nel paese ed ha compiti specifici: educare i figli, curare la famiglia, svolgere le attività legate ai frutti della pastorizia, pulire e oliare il formaggio. Tutto, dal grano al pane, è in mano alla donna. Non si annoia, nel lavoro, lei: il suo è un ruolo fondamentale, anche per una sua specifica verità femminile».
- Che significa?
«La donna è un altro mondo. A Bitti esiste una bellissima frase, sul vedovo che si è risposato: est istatu in duos mondos, ha conosciuto due mondi. Frase meravigliosa, spiega davvero e profondamente che cosa sia la donna».
- Nel tuo libro si tratta a lungo anche del culto dei morti. Cosa osservi di nuovo, su questo versante?
«In questi ultimi decenni l’ovile ha smesso di essere quella “università” di cui parlava Michelangelo Pira. C’è un cambiamento nel vestiario, nel rapporto tra il tempo della campagna e quello del paese, e potrei continuare. Ma tutto ciò che si riferisce alla morte ha un valore resistenziale.
La morte mette ancora in crisi la comunità. La novità riguarda il versante del lutto: oggi prevale il desiderio di liberazione, le donne s’iscorrutan (si tolgono il lutto). Resta l’affetto e il sentimento, il rapporto stretto di memoria, ma non il colore nero delle vesti. Il lutto non è più una segregazione»
- Il fantasma di negazione. Un tempo si diceva: dae su nono no si tinghet pabiru, se tu neghi non ti fanno il verbale.
«Gli anziani raccomandavano: négati semper, prima di tutto nega. Il negare fa parte di una cultura profonda, difficile da eliminare. Poi potresti anche affermare, è più facile passare dal no al sì: ben più difficile il percorso contrario».
- Una difesa?
«Una cautela».
- Veniamo al linguaggio metaforico, tipico del mondo pastorale.
«Se si segue un gruppo di pastori in giro per il paese da un bar all’altro è interessante osservare come il linguaggio assuma veste metaforica. E un mandare a dire. Come in una carambola: fai sponda e la comunicazione ritorna da e su un altro versante. Il discorso non è mai diretto, frontale, a meno che tu non sia un ingenuo o non ti trovi in preda all’ira. L’arte raffinata del parlare è fondata tutta sulla metafora. Intraduras e bessiduras de arréjonu, entrate e uscite del ragionamento rivelano questa singolare contrapposizione: alla tecnologia pastorale primitiva fa da contraltare una raffinatezza estrema di comunicazione orale».
- In sardo si dice: faeddare in suspu. Tradotto, cos’è?
«Intendere e fraintendere. Invento una narrazione per far capire a qualcuno ciò che sfugge ad altri. Il codice vive di rimandi simbolici, solo in apparenza realistici. Il linguaggio nascosto costringe a un esercizio di interpretazione, c’è un’articolazione complessa di competenza tra il dire e l’ascoltare. Resiste, questo codice, come se la gente l’avesse nel sangue. E poi c’è l’ironia: il parlare ironico rende immortale il linguaggio metaforico». 

A segus