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Diretore: Pepe Coròngiu       Coord.Editoriale: Micheli Ladu
CHISTIONES

16/09/2007 
Su primu passu cara a "s'istòria bera de is sardos"
[de Roberto Bolognesi]

Franciscu Sedda è molto intelligente. Questo lo sappiamo. Ma ha anche quella “marcia in più” che viene “dall’avere il cuore al posto giusto”. Il dovere di ogni intellettuale è quello di cercare la verità e Sedda il suo dovere lo sta facendo fino in fondo. Sedda è dalla “parte giusta”. È vero—verissimo—che Franciscu Sedda è schierato: è addirittura uno dei fondatori di un movimento politico. Abbiamo il dovere di sospettare di lui: è partigiano, ha degli interessi politici da portare avanti!Come intellettuale, però, è schierato dall’unica parte giusta: la parte di chi crede che sapere di più sia meglio che sapere di meno.Con La vera storia della bandiera dei sardi (Edizioni Condaghes, pagg. 222, €18.00), Sedda ci rende partecipi di quello che lui sa sulla storia della nostra identità di sardi. E il suo sapere non è poca cosa.



E diversamente dal modo al quale ci hanno abituato tanti intellettuali “neutrali”—Sedda si preoccupa immediatamente di chiarire già nell’introduzione del suo libro che: “Ogni sapere propone un’adesione passionale e un’assunzione cosciente attraverso le quali cerca di fondare un credere e un certo sentimento del reale: in definitiva, istituendo un Soggetto capace di interpretare il mondo, di entrare in relazione con esso, ogni sapere ci propone una soggettività e dei valori praticabili quotidianamente”.



Quanti dei nostri intellettuali “neutrali” possono permettersi tanta sincerità? Chi di loro ha mai avuto il coraggio di ammettere che la loro “verità” è contemporaneamente frutto della loro passione (o altri interessi non meno pressanti) e risultato di un’operazione cosciente di “fondazione del reale”? Eppure, questo è quello che facciamo tutti.

Con il suo libro, Sedda ci propone quindi di giocare all’unico gioco che un’intellettuale onesto può proporre: il suo. 

Ci lascia, però, la libertà di dubitare e di giudicare da soli se quello che dice è valido o meno.



Ci fa ripercorrere tutto, ma proprio tutto, il percorso storico della “bandiera sarda” e giunge alla conclusione che “I quattro mori” sono sempre stati—e secondo lui sono ancora—il simbolo dei dominatori, non quello dei sardi. 



Siccome Franciscu Sedda è semiologo—e un buon semiologo!—è anche in grado di spiegarci il perché della scelta di quel simbolo, effettuata originariamente e per motivi tutti loro dai catalani. Come anche di spiegarci in che modo quel simbolo è stato usato in seguito, da parte dei dominatori seguiti ai catalani, per il conseguimento di risultati politici ben precisi.



Qualcuno forse dirà: “Ma come, tutto qui? In fondo non c’è molto di nuovo!”

Quello che è nuovo—nuovissimo!—è il punto di vista con cui il libro è scritto.

Franciscu Sedda guarda alla storia della bandiera sarda con gli occhi di un sardo culturalmente decolonizzato. 

Sedda guarda alla nostra storia con gli occhi interessati di un intellettuale sardo che sa fare il proprio dovere e i propri interessi di sardo e non solo—o soprattutto—gli interessi del suo datore di lavoro non sardo: in genere l’università italiana.



Già, perché la “neutralità” degli altri è tutta interna alla logica di una carriera da costruire, o da consolidare, all’interno di un’istituzione totalmente immersa nell’economia, nella politica e nella cultura italiane. Quando questa gente parla di “neutralità”, vuol semplicemente dire che non bisogna mettere in discussione la loro dipendenza da quei centri di potere italiani che garantiscono “l’autonomia dell’università”. 

Eppure almeno alcuni di questi personaggi hanno perfino fatto il ’68 e hanno allora denunciato l’impossibilità di una cultura neutrale. Beata gioventù: a quell’età non si pensa che, come ha detto il padre di Francesco Guccini, “la pensione è davvero importante!”



In questo senso è davvero illuminante—oltre che attualissimo—quello Franciscu Sedda scrive riferendosi all’opera di Giovanni Francesco Fara, “il primo degli storici sardi”: “È come se avessimo avuto modo di seguire, attraverso le vicende della bandiera, due cammini che arriveranno a compiersi pienamente nella prima metà del ‘600: il cammino di una classe dominante e dirigente straniera che tende a suo modo a “sardizzarsi”e una classe intellettuale di nascita sarda che tende a “iberizzarsi”. Tuttavia tale processo, costantemente evocato dagli storici, non è scontato nei valori che afferma: letto in quest’ottica il lavoro di Fara prepara e fonda un modo di essere sardi sostanzialmente anti-sardo. Una sardità anti-sarda che saldandosi con l’ambigua “indigenizzazione” delle nuove classi dominanti darà come esito l’assunzione della bandiera che meglio poteva rappresentare questo paradossale compromesso: una bandiera non nata in Sardegna, data alla Sardegna dai suoi conquistatori (in qualunque momento ciò sia avvenuto), che rappresenti l’integrazione della Sardegna—in particolare delle sue élite politiche, economiche, militari e culturali—al domino esterno mentre ne salva una formale individualità istituzionale.” (La vera storia della bandiera dei sardi, pag. 99)



Sono sicuro che a parecchi intellettuali sardi “neutrali” fischieranno le orecchie, leggendo questo passaggio.

E questa citazione contiene in nuce tutto il libro.

Se Franciscu Sedda ha voluto scrivere, da semiologo, la storia di un simbolo, io ho letto in questo libro la storia non ambigua dell’ambigua identità delle classi dirigenti sarde.

Da linguista (fatu a linguista) vi ho trovato una chiave di lettura ulteriore che mi permette di capire meglio la difficoltà dei sardi ad accettare l’introduzione di un’unica lingua ufficiale scritta: così come “I quattro mori” e il “Regno Sardo” sono stati imposti dai conquistatori e sono esistiti per secoli nell’ambiguità, anche l’identità sarda è stata vissuta dai sardi finora in modo estremamente ambiguo. L’essere “sardo” è sempre stato—almeno a partire da s’ocidroxu del 1409—assolutamente secondario rispetto all’appartenza alla propria comunità tribale (sa bidda). E questo atteggiamento è stato finora sempre stimolato e incoraggiato dalla cultura ufficiale: con la maggior parte dei linguisti sardi in prima fila a sottolineare le differenze, anziché le cose molto più numerose che uniscono le varietà linguistiche parlate dai sardi.



E chi per esempio ancora elogia—la Cultura Ufficiale! Pensate a un nome...—la “Costante resistenziale dei Barbaricini” come esempio di “sardità” e la contrappone alla “servilità” dei Campidanesi, dimentica o finge di dimenticare che le bardanas erano/sono dirette contro altri sardi (altro esempio di sardità anti-sarda) e non contro i Piemontesi e i loro successori.

Malafede?

Chi può dirlo? I Romani, meno ipocriti, chiamavano queste cose: divide et impera.

Sedda è convinto che la nazione sarda, sconfitta dai Catalani, non sia mai stata più rappresentata da un simbolo adeguato: cioè dal simbolo di una classe dirigente nazionale sarda. Ma la nazione, e questa è una critica scientifica più che politica, è un construtto, non un fenomeno naturale e la nazione sarda è, semmai, ancora da costruire. 

Ammesso anche che questa sia poi la strada giusta per vivere meglio anche in Sardegna. 



Certamente, comunque, il raggiungimento di un’identità—linguistica e non solo linguistica—collettiva di noi sardi non potrà che giovarci nella nostra ricerca della felicità.

Detto questo, mi rimane soltanto da sottoscrivere la seguente frase di Sedda: “Dato che un’autocoscienza non si può costruire sul vuoto—benché si possa tranquillamente edificare su menzogne, incomprensioni e ingiustizie—abbiamo bisogno di rimettere in discussione tutto il nostro passato.”



Se questo era l’obiettivo vero di Franciscu Sedda, allora bisogna dire che l’autore è perfettamente riuscito a raggiungerlo. La vera storia della bandiera dei sardi ci sfida a ripensare a a riscrivere la nostra storia e a ridefinire in termini post-coloniali la nostra identità di sardi.

Tornando alla discussione iniziale sulla verità: quella di Sedda è poi la Verità? 

Come verità provvisoria—nella scienza la verità è sempre provvisoria—quella di Sedda è incomparabilmente superiore a quella con cui ci hanno finora nutrito culturalmente i nostri intellettuali “neutrali”. 



Per due motivi: è la verità degli sconfitti—e finora conoscevamo solo quella dei vincitori e dei loro tzeracos!—ed è il risultato di un’analisi che, tenendo conto di tutto quello che è stato detto finora, aggiunge alla prospettiva nuova (quella di un sardo indipendente) l’elemento tecnico nuovo e sofisticato della semiologia.

La Verità? Ah, la Verità.... ma questo libro ti mette davvero la voglia di conoscerla.



Un invito ai lettori impazienti: tenete duro per tutta la prima parte del libro! È, a dir poco, ostica, ma in seguito avrete la ricompensa di una lettura che cambierà il vostro modo di pensare.



E un consiglio a Sedda: scrivere per essere letti anche dagli altri costa soltanto circa un terzo in più del tempo totale. Ne vale la pena!

E infine un consiglio anche al nostro governo regionale: tagliando i finanziamenti all’editoria, si dice dietro suggerimento dei vostri interessatissimi consiglieri “neutrali”, avete reso praticamente impossibile la pubblicazione di opere non prodotte dall’oligarchia accademica; avete creato nuovamente una situazione di monopolio in cui soltanto gli intellettuali stipendiati dallo stato italiano possono far udire la loro voce. 

Se il vostro obiettivo era quello di favorire l’oligarchia, continuate pure. Ma se il vostro obiettivo era quello di moralizzare la cultura, allora avete messo il classico “lupo a custodire il vostro gregge”: cambiate politica! Ci sono altri Sedda che attendono da troppo tempo.





Roberto Bolognesi


























  




 

 
 
 

 

 
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