SU GIASSU
Domo
Ite est Diariulimba
Sa gerèntzia de Diariulimba
Su Sòtziu Limba Sarda
Organigramma de su Sòtziu
LINKS
ARCHIVIU annu pro annu 
Pro retzire sa lìtera de noas
ISCRIENOS
diariulimba@sotziulimbasarda.net



Diretore: Pepe Coròngiu       Coord.Editoriale: Micheli Ladu
SEBEROS DE IMPRENTA

08.10.2007
Bandinu, sos pastores e Soru

LA NUOVA SARDEGNA - Cultura e istruzione : 
"Riti e miti del pastoralismo contro la globalizzazione»"

Maschere di Carnevale e forme musicali arcaiche della Sardegna centrale sono esperienze uniche al mondo 
CAGLIARI. Sono giorni di grande festa pastorale, questi primi di ottobre in Sardegna, culminati ieri nei due appuntamenti di Gavoi e Ollolai - ampiamente pubblicizzati - e una serie di altri eventi a cui si è dato poco spazio nelle comunicazioni di massa, ma non per questo sono meno significativi. Sul pastoralismo e la cultura che lo sostiene, i valori di riferimento su cui si fonda e le polemiche spesso aspre che accompagnano da sempre le dispute su questo argomento abbiamo incontrato Bachisio Bandinu, lo studioso che più di tutti negli ultimi trent’anni ha dedicato attenzione al pianeta del noi-pastori, dai tempi di «Il re è un feticcio» al recente «Il pastoralismo in Sardegna», passando attraverso gli studi sulle maschere, il canto a tenore e il ballo. Il professor Bandinu fa una premessa semplice: «Il pastoralismo investe l’economia e la cultura della Sardegna di oggi. Siamo forse l’unico caso in Europa. In Grecia, nei Pirenei e nelle Alpi francesi il pastoralismo non esiste più, almeno nella formula tradizionale. Da noi sì». -Come e perché? «Qui costituisce un’ossatura dell’economia e un universo rituale. E soprattutto un modo di parlare, di organizzare il discorso nell’uso di tempi e modi verbali, segni molto profondi quando si parla di una cultura». -Possiamo dire anche di una civiltà? «Così l’hanno visto due illustri studiosi francesi: Blaudel e Le Lannou. Giovanni Lilliu la pensa allo stesso modo. Nel Mediterraneo questa civiltà è stata sempre vista come egemone rispetto alla cultura agraria, il pastore come più creativo rispetto al contadino». -In Sardegna? «La situazione sarda è ancora più interessante, qui il pastoralismo continua ad essere anche una economia. Cosa sarebbe la Sardegna centrale senza pastori? Le maschere di Mamoiada, Ottana, Orotelli e le forme musicali arcaiche del pastoralismo sardo sono esperienze uniche al mondo». -Pensi al canto a tenore? «Il canto a tenore è riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità soprattutto per ragioni musicologiche, i tratti distintivi dei suoni del basso e della contra che vengono dal profondo delle viscere. Tutti elementi di enorme importanza per capire il valore di questa civiltà». -Come vedi i pastori delle nuove generazioni? «Vestono in blue jeans, vellutino e maglietta ma se vai a scavare noti che molti elementi tradizionali permangono. C’è una modernizzazione ma sopravvive un sostrato interessante sotto molti aspetti». -Oggi però il settore soffre di una doppia crisi: prezzo del latte basso e mangini in aumento. «Tuttavia nei paesi si resiste, l’attività prosegue. Questo dramma è vissuto resistenzialmente. E non dimentichiamo che le produzioni pastorali costituiscono ancora il nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo. Ma il discorso non può essere soltanto economico». -Che cosa vuoi dire? «Il pastoralismo ha dato vita all’intellettualità sarda: proviamo a unire gli spezzoni della Sardegna a caratterizzazione pastorale, a partire da Emilio Lussu e i cosiddetti re-pastori di Armungia». -Per arrivare dove? «In Ogliastra, Barbagia, Mandrolisai, Marghine, Logudoro e non solo. Pensiamo a Peppino Mereu, Mossa, Cubeddu, Murenu, la poesia orale degli improvvisatori, Deledda, Cambosu, Sebastiano e Salvatore Satta, Nivola, Ballero, Ciusa, i grandi avvocati nuoresi Mastino, Oggiano e Pinna, per non parlare di Antonio Pigliaru, Michelangelo Pira e Antonello Satta. In senso antropologico vengono tutti dal mondo pastorale: escludiamo questa gente e vediamo cosa resta». -Eppure questo pianeta è visto con ostilità. «Troppi intellettuali sardi si sono scagliati contro questo mondo. Per loro è un relitto del passato e un peso da eliminare in nome del progresso. Oggi, però, un politico come Renato Soru crede invece che lo sviluppo pastorale di un certo tipo - prodotti di eccellenza, ambiente, identità, lingua: tutti tratti caratteristici del pastoralismo - rappresenti la più importante tra le risorse vere della nostra terra. Soru ha letteralmente capovolto la visione marxista che aveva dominato la cultura sarda dagli anni Sessanta a oggi». -Nonostante i suoi primi consiglieri venissero quasi tutti dal marxismo? «Soru ha percorso la strada contraria. C’è una carta da giocare in termini di produttività migliore, marketing e competizione di mercato: Soru ne ha fatto una prospettiva politica reale. È significativo che il problema identitario sia diventato fondamentale anche nella produzione, rispetto a un universalismo generico. Tu devi fare il miglior formaggio del mondo e il migliore formaggio è quello sardo confezionato secondo certi criteri. Stesso discorso per il turismo: c’è una risorsa nostra interna sempre negata e combattuta da chi ripeteva alla noia il ritornello “ci dobbiamo agganciare al treno”. -Ma quale treno, dove va questo treno? A Bruxelles, forse. «Ma ci devi andare con i tuoi piedi, i tuoi prodotti, la tua identità. Il futuro della Sardegna viene anche da quell’universo: beni ambientali, turistici, di produzione identitaria eccellente. Un prodotto della montagna sarda non lo puoi mettere alla pari con un prodotto che viene da Lodi. Il nostro è un plusvalore incredibile in cui la Sardegna può giocare. L’identità è un fatto economico, non un’idea sovrastrutturale, come si diceva una volta». -Una delle caratteristiche dei nostri pastori è la persistenza della memoria: il ricordo dei morti, ad esempio, è una sorta di culto. «All’interno di questo segno identitario si colloca un rapporto profondo con la morte. In un paese pastorale chi muore non viene eliminato, come nella memoria artificiale della società dei consumi. Dunque il rapporto con la morte viene disteso nel tempo lungo. Oggi invece nella società del globale non c’è posto per la memoria, la morte è confinata in un ambito esorcizzante, come se non si morisse: nelle città per lo più si muore in ospedale». -Alla base di tutto questo c’è la lingua. Argomento difficile. «Il discorso della lingua è stato sempre visto da molti intellettuali sardi come una forma regressiva, senza spazio né tempo davanti a sé, un ritorno a un passato che non esiste. Non è stato colto un fatto fondamentale: il sardo è una lingua parlata, vissuta, con un’esperienza di sentimenti, sogni, ideali, paure, tormenti, vita reale di ogni giorno vissuta attraverso la parola». -Ne deriva? «Una deduzione: non è il passato, ma il presente che sperimenti nella quotidianità: parlando, soffrendo, lamentandoti, pregando, poetando. Dov’è il ritorno al passato? Questi signori hanno un concetto cronologico della storia: siccome la lingua si parlava nel passato è meglio che faccia il suo tempo e muoia». -Invece? «Invece la lingua è una scommessa nuova, che può parlare il presente allo stesso modo dell’italiano e dell’inglese. Se tu parli anche in sardo la politica e l’economia, arricchisci il messaggio di altre lingue, nel senso che lo estendi meglio dal locale al globale. Soru ha intuito molto bene tutto questo e l’ha espresso con chiarezza: la lingua è un elemento fondamentale nel suo concetto di promozione della nostra identità a tutti i livelli. Ha detto anche altro, Soru». -Cos’altro? «Ho letto tutti i suoi discorsi, li ho studiati per capire a fondo il messaggio sostanziale. Soru dice: l’identità riguarda l’economia. Se è così, come credo, si tratta di una scommessa per il futuro. Altro che ritorno al passato: è l’esatto contrario». -A livello culturale? «Dalla ricerca promossa proprio da Soru e affidata alle due Università di Cagliari e Sassari risulta che la gente parla la lingua più di quanto non si credesse. La parla e la capisce. L’uso della lingua potrebbe anche essere interessante per filtrare il globalismo e il mondialismo generico». -Spiegalo. «Se parlo in sardo anche la pubblicità, c’è spesso un filtro ironico dove io non sono vittima della merceologia consumistica. La pubblicità massiva è debordante e fatta di formule stereotipe. Se la facessimo in sardo avremmo una maggiore presenza del soggetto consumatore: intervengo filtrando tutto con la mia soggettività, cosa impossibile nella pubblicità ordinaria. Il Vangelo comanda: ama e fai quello che vuoi e la pubblicità esorta: fai ciò che vuoi, purché consumi. La lingua ha il grande potere di addomesticare e metamorfizzare le cose». 


  




 

 
 
 

 

 
diariulimba@sotziulimbasarda.net  © sotziulimbasarda 2004-2006,"e' vietato riprodurre articoli originali o estratti da questo sito senza l'assenso della direzione"