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25/03/2007 
"Il libro di Corongiu: la lingua come strumento di identità"
[de Andrea Oppo]

Mentovu de su libru "Pro una limba ufitziale" in sa revista Làcanas firmadu dae Andria Oppo. Est unu giudìtziu fatu a sa sèria, achistiadu e non bogadu pro s'ocasione. A bisu de Oppo, s'autore de su manuale giurìdicu-amministrativu pro su sardu bogat a craru sa trampa de s'arcaicidade e genuinidade de sa limba chi at negadu sa modernizatzione sua. <No isco cantos sardos ant a èssere de acordu cun Coròngiu - iscriet s'autore - ma de seguru sa proposta est crara e motivada>. < E come succede ogni volta che la proposta è esplicita e che al lettore, in fondo, si chiede un “sì” o un “no”, il problema diviene ipso facto politico: di scelte di governo e dell’adesione o meno da parte dei cittadini>. 



L’idea che una lingua debba corrispondere in pieno all’identità del popolo che la parla, nel caso della Sardegna sembra nascondere un vero e proprio tranello, che in qualche misura è risultato fatale allo sviluppo di una cultura sarda autonoma e moderna, e lo è ancora ai giorni nostri. Sembra essere un po’ questa l’idea di fondo del nuovo libro, interamente in sardo, di Giuseppe Corongiu, Pro una limba ufitizale. Un’idea che lo stesso autore esprime senza mezzi termini nella sua premessa in italiano, quando dice che sociologi, antropologi e studiosi in genere hanno studiato il sardo per “far risaltare l’aspetto ‘arcaico’ della lingua e rimarcare la ‘purezza’ e la sua ‘esoticità non contaminata’. Ogni contatto con le lingue forestiere è da aborrire e il ‘vero’ sardo era ed è soprattutto quello che trovava in modalità autoctone le formule per esprimere concetti intimi, poetici o antropologici. Guai a usare la lingua in un ambito moderno con criteri contemporanei internazionali” (p. 18).



È dunque la stessa connessione apparentemente necessaria tra i due termini, lingua e identità, a essere qui rimessa in discussione e sottoposta a critica. Cosa vuol dire avere un’identità? E soprattutto cosa significa che una lingua debba esprimere questa identità? Il libro, in realtà, non sembrerebbe occuparsi direttamente di queste domande. Pro una limba ufitziale è infatti un testo tecnico, destinato a un compito specifico, quello di colmare una lacuna esistente – salvo rari e disordinati tentativi fatti in precedenza – nel campo del linguaggio giuridico-amministrativo: “È necessario, prima che sia troppo tardi, attrezzare la nostra lingua per la moderna comunicazione contemporanea in tutti i possibili campi di applicazione e in tutti i linguaggi settoriali tecnici. Primo fra tutti quello giuridico amministrativo (...) in quanto base primaria della lingua ufficiale” (p. 19).



Pertanto è un manuale d’uso, con regole di scrittura dei testi ufficiali, schede terminologiche, approfondimenti su eventuali problemi di traduzione, una proposta di glossario sperimentale, esempi di testi amministrativi e giuridici, e confronti di traduzioni tra italiano e sardo (è tradotta per intero la legge 354/1975 sul trattamento penitenziario), ma anche tra il sardo e altre lingue dell’Unione europea. Un manuale d’uso nel vero senso della parola: solo pochi paragrafi sono lasciati a una disamina del problema di una lingua amministrativa nella storia sarda. Questo a voler affermare chiaramente che di un testo pratico, orientato al presente, si tratta e non di uno studio storico-critico, per quanto gli aspetti rilevanti ed essenziali di critica storica non manchino.



Come detto, è un libro tecnico, scritto in sardo – in un sardo che tende quanto più possibile, dice l’autore, a quella “limba comuna” battezzata ufficialmente dal governo regionale il 18 aprile 2006 – e come tale va considerato, e lasciato perciò al giudizio degli addetti ai lavori. Ma ugualmente contiene in sé, neanche tanto velatamente, una visione sociologica di base ben precisa e un ideale verso cui puntare che è tutto fuorché burocratico o tecnicistico. Lo dice chiaramente l’autore: “Dribblare la tentazione della nostalgia, de su connotu, del bel mondo andato, dell’etnocentrismo rurale, della memoria fine a se stessa” (p. 19). 



Queste tentazioni altro non sono, dice Corongiu, che dei miti introiettati dalla maggior parte dei sardi, i quali vorrebbero la loro stessa lingua “pura, arcaica, incontaminata, naturale, ‘areste’... con tutte le sue mille varianti elevate a lingua ufficiale. La vorremmo insomma in un modo tale che lingua ufficiale e veicolare non diventerà mai” (p. 17). L’obiettivo è invece quello, come già diceva Michelangelo Pira, citato nel libro, di essere sempre più soggetto della propria definizione e auto-programmazione come popolo e non semplicemente oggetto di studi. “Il futuro – dice Corongiu – si può costruire senza rinunciare alla nostra lingua e alla nostra appartenenza a una comunità storica, come vorrebbe invece oggi l’industria culturale egemone della nostra isola” (p. 19).



Pertanto una lingua va certamente conservata e difesa; va reinventata di continuo (al qual compito – come osserva Maurizio Virdis nella sua presentazione – assolvono molto bene la scrittura letteraria e quella giornalistica, le quali oggi, proprio nel caso del sardo, godono di un’imprevista vivacità); ma soprattutto va “costruita”. Ed è quest’ultimo, secondo Corongiu, il vero esame di maturità di una lingua, senza il quale non ci può essere unità linguistica né modernizzazione e apertura al mondo, ma soltanto “un’intimistica lingua degli affetti”.



Di questo libro si potranno dire molte cose, tranne una: che non sia chiara la visione di fondo, la proposta operativa in esso contenuta. Ed è precisamente questa la proposta di Giuseppe Corongiu: portare il sardo da lingua della tradizione e “de su connotu” a lingua minoritaria, moderna, che si confronta con le altre all’interno dell’Unione europea. Si può discutere ancora a lungo su tradizione, identità e costumi del passato, ma nel momento in cui si ragiona su dove dirigere la “prua”, alla cui rotta sono legate le sorti future, la proposta di Corongiu richiede una presa di posizione senza ambiguità: si può essere d’accordo oppure no. 



E come succede ogni volta che la proposta è esplicita e che al lettore, in fondo, si chiede un “sì” o un “no”, il problema diviene ipso facto politico: di scelte di governo e dell’adesione o meno da parte dei cittadini. In tal senso lo stesso autore – che nella premessa elogia e sprona a fare di più, nella direzione già intrapresa, la Giunta regionale in tema di tutela della lingua – si mostra ben consapevole del ruolo e dell’importanza della politica nella realizzazione di questo obiettivo. 



Stando così le cose, è evidente che a una proposta esplicita di questo tipo segue necessariamente una domanda che libri come Pro una limba ufitziale, se non altro, hanno il merito di sollecitare con altrettanta chiarezza. Ovvero: quanti fra i Sardi sono realmente d’accordo con questa proposta? Quanti desiderano in cuor loro che il sardo sia essenzialmente lingua e “luogo” dell’infanzia, custode di valori intonsi che fanno capo alla memoria e agli affetti; e quanti vogliono invece che, oltre gli affetti e la memoria, sia lingua di confronto politico con altri popoli, lingua del presente, lingua dell’oggi?



Non si tratta qui, almeno da come sembra porre la questione Giuseppe Corongiu, di uno scontro tra “mentalità aperta e chiusa”, tra passato e futuro, tra tradizione e cambiamento. È semmai un problema in apparenza più specifico, quello della costruzione di una lingua giuridico-amministrativa, ma che rivela il punto focale dell’affermazione dell’Io di un popolo, della sua identità, ossia il confronto alla pari, la definizione del proprio Io adulto. 



Eccolo il tranello individuato dall’autore: non è l’identità che detta le regole alla lingua, ma è la lingua uno fra gli strumenti che indirizzano e costruiscono l’identità. La sua è una presa di posizione netta, che si colloca sul versante opposto a quella che, usando l’espressione di Elio Vittorini, un altro isolano, non sardo, si potrebbe definire Sardegna come un’infanzia.



Andrea Oppo 





s'artìculu est publicadu in Làcanas pag. 67, n°24/2007 





G. Corongiu, Pro una limba ufitziale, Domus de Janas Editore, Selargius (Ca), 2006, pp. 306, € 25,00.




 










  




 

 
 
 

 

 
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