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21/03/2007
Placido Cherchi e sa limba  

L'Altra voce - 21.03.2007 


mercoledì 21 marzo 2007

Placido Cherchi e la lingua dei dubbi
in una Sardegna che non alleva filosofi

di Matteo Bordiga

Una riflessione sul reale significato e sulle molteplici connotazioni dell'identità isolana. Una raccolta di saggi che si sforzano di definire alcune caratteristiche peculiari dello spirito, della storia e soprattutto della lingua dei sardi. Con il rigore analitico ma anche con il piglio creativo e propositivo dello studioso di lunga data.

Placido Cherchi, 68enne oschirese autore del libro “Crais. Su alcune pieghe profonde dell'identità” (Zonza editori), non solo è antropologo di riconosciuta competenza, ma anche affermato saggista e intraprendente teorico. Le sue idee, assemblate in questo volume che, come lui stesso ha spiegato, «è un po' la summa degli spunti maturati negli ultimi anni», sono state introdotte dallo scrittore Antonello Zanda nel corso della presentazione del libro avvenuta ieri alla Società Umanitaria, a Cagliari.

«Cherchi sonda le pieghe della cultura sarda per cogliere il senso dell'identità», ha detto Zanda, «e i brevi saggi che compongono il libro si limitano ad aprire delle finestre, degli orizzonti interpretativi che rimangono sempre in attesa di verifiche e riscontri. Tanto per cominciare, l'autore descrive le forme di autoriconoscimento identitario. Ad esempio, indicando alcuni degli elementi che caratterizzano la “sardità” dei sardi, segnala il tipico sentimento di vergogna che gli isolani nutrono nei confronti di sé stessi».

Da ricordare anche il capitolo consacrato all'elogio del bilinguismo: «Secondo Cherchi, l'unico modo per salvare la lingua sarda è puntare su un profondo e consapevole bilinguismo», ha sottolineato Zanda, «che deve fondarsi sulla perfetta conoscenza sia della limba che dell'italiano. Una filosofia che dovrà rifuggire sia gli eccessi dei puristi, paladini dell'uso cocciuto ed esclusivo della lingua sarda, sia la tendenza all'autocensura dei sardi vergognosi di sé i quali, limitandosi alla conoscenza dell'italiano, rifiutano di imparare l'idioma della loro terra».

Infine, Antonello Zanda ha posto l'accento sull'interessantissimo minisaggio dedicato al tempo storico e al tempo mitico nella lingua sarda, con il quale «l'autore ci ricorda che la limba ha conservato, nelle sue espressioni e nelle sue “sentenze”, una dimensione trascendente, addirittura mitica. In questo senso, il mito è inteso come istanza ciclica e immanente in grado di sottrarre l'uomo e le idee da lui veicolate alla criticità e all'angoscia della storia. Cherchi cerca le tracce del mito nella parlata sarda, ritrovandole in espressioni ricorrenti», prosegue Zanda, «e, soprattutto, caratterizzate dall'uso costante del congiuntivo e del condizionale, a discapito dell'indicativo».

A chiarire e ad argomentare questo punto è intervenuto direttamente l'autore: «La nostra lingua, riflettendo la nostra identità, si contraddistingue per la sua complessità e profondità. È una lingua cerebrale, espressione del pensiero e della riflessione. Anche se questo noi non lo sappiamo o, meglio, non ce ne accorgiamo. Ecco perché la limba fa regolarmente ricorso al congiuntivo e al condizionale anziché all'indicativo, che invece spadroneggia nell'italiano: perché vive di strutture ipotattiche, ovvero ricche di subordinate e incisi, che ne rivelano la fondamentale problematicità».

Insomma, i sardi parlano in maniera involuta e complicata? «Non involuta ma, piuttosto, dubitativa», risponde Placido Cherchi, «dal momento che non ci sentiamo in grado di descrivere assiomaticamente una realtà, come fanno invece la maggior parte degli italiani. Noi non diciamo mai “questo è un bicchiere”; traducendo letteralmente la stesso concetto dal sardo, suonerebbe come “questo dovrebbe poter essere un bicchiere”. Ed ecco emergere la componente dilemmatica, dubitativa del sardo e, dunque, dei sardi».

Dopo aver ricordato che le circonlocuzioni e i sofismi verbali per evitare di descrivere un fatto in maniera univoca sono tipici anche dei motti di spirito e dei proverbi sardi, Cherchi ha osservato che «nonostante la nostra lingua, proprio per queste caratteristiche, si prestasse in maniera straordinaria a diventare strumento di approfondimento filosofico, la Sardegna ha partorito pochissimi pensatori. Si possono contare sulle dita di una mano. Il motivo? Semplice: nell'Isola la soggettività dell'individuo si è sempre scontrata con la comunità, luogo salvifico e mondo protetto ma anche centro nervalgico autoreferenziale, nel quale si esercitano le censure più terribili. E la filosofia, in quanto voce della soggettività, in un simile contesto non poteva prosperare e trovare libera espressione».

Piuttosto, secondo lo studioso logudorese «è stata possibile l'affermazione di una filosofia di tipo sapienziale, ossia basata sulle tradizioni e, appunto, collettivamente acquisita».

Il libro è completato da un capitolo di etnomusicologia dedicato all'antropologo danese Andreas Fridolin Weis Bentzon, che negli anni Cinquanta sbarcò in Sardegna e rimase folgorato dal suono delle launeddas, e da un approfondimento sulla figura dello studioso Salvatore Naitza.



  




 

 
 
 

 

 
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